Condivido una mia riflessione scritta oggi riguardo alla guerra in Israele

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Vela il ramo

il plumbeo del cielo,

sobbalza il chiaroscuro mosso dal vento che 

spira dalla luce.

Piove sull’ardente fiamma di un amore mai nato, 

sognato, anelato, 

ricamato nella mente dei pensieri lividi

del non ritorno, dell’addio. 

Parola di troppo

ha frantumato l’invisibile mistero di un interesse 

mai nato nel cuore, 

retaggio di mente non chiara 

che lo ha chiamato futuro amore 

senza sapere il significato di queste personali parole. 

Assolo di nuvole mobili nel cielo nero, 

minaccia di attacco nel fulmine di quel non detto 

gridato con violenza 

nel silenzioso negarsi. 

Riva lontana dalla compassione, 

sponda su cui è difficile avanzare, quasi impossibile, 

quando le acque del fiume della rabbia esondano 

ricoprendo, nascondendo, 

celando anche quel poco di bellezza intravista 

nel dialogo placido di due voci innamorate 

per fuga dal quotidiano inferno di terrore 

di non riuscire più ad amare. 

Semmai prima ci sia stata l’attitudine ad amare,

la capacità o una tecnica che 

si riesce ad applicare con la maestria dell’inganno. 

Tiro alla fune stanchevole, 

il tempo scorre, 

or ora ha smesso di piovere. 

Inutili rintocchi a riparare dell’orologio del pentimento 

del non vissuto per timore, per mancanza d’amore, 

rimuginando nell’attaccamento a questioni d’onore. 

Orgoglio mai pago 

condanna della conversazione, della chiarificazione. 

Cosa da chiarire? 

Il mancato trasporto 

o la mancata occasione 

di prendere in mano il timone e 

stabilire la rotta? 

I rami degli alberi rallentano il loro oscillare, 

la bacchetta del direttore li invita a scomparire, 

lasciando l’impronta nel vento che 

ad libitum veicolerà parole mai dette, 

azioni mai compiute 

nell’eterno infinito del ripetersi di un silenzio impermanente, 

duraturo nel vocalizzo del non detto.

L’acqua ha ripreso a cadere copiosa, fine, 

abbondante lavacro necessario 

imposto dal Coppiere eterno, 

adesso nella veste di purificatore,

dismessi i panni dell’orchestrale assurto a direttore 

nel dirimere il garbuglio di note sbagliate 

di una partitura declamata per orchestra, ma 

in realtà parte solista di un niente esistente 

rivelatosi nell’inadeguata giustificazione addotta: 

macchia d’inchiostro che ha coperto le note in filigrana 

per capriccio, ricatto, ripicca 

trasformando la melodia dell’Amore in una scaramuccia banale, sferragliante richiamo di scordatura.

Solenne inganno nel buio del tramonto, dell’ora del tramonto, non morte, 

ora cadenzata,

non mero tramonto immaginato cremisi, 

visto grigio scuro sul finire del giorno.

Plumbeo meridie, 

non solo ora del giorno, 

anche il nome della sinfonia che  

ferma alle prove dello spettacolo, 

si diffonderà nel teatro quando il soliloquio del pensiero 

prenderà la forma di un discorso esternato

lasciando la non forma di un rimestio 

di congetture interiori 

ronzio della mente.

Salita al Calvario.

Gabriele Prigioni©

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